26 luglio 1992 Roma.
Dal terrazzo di un palazzo della capitale, si getta nel vuoto una ragazza di soli 17 anni, è Rita Atria.
Rita, figlia di Vito e sorella di Nicola, la mafia la conosceva bene, aveva imparato a conoscerla in casa, aveva dovuto respirare il “puzzo del compromesso morale” sin da piccola, ma non aveva mai davvero accettato di conviverci.
Rita voleva essere libera, voleva vivere come una qualsiasi ragazza della sua età, voleva poter dormire serena, voleva non portarsi addosso la costante sensazione di paura, la perenne percezione di essere in pericolo.
La famiglia di Rita Atria
Il primo ostacolo che Rita ha dovuto affrontare è stata sua madre, Giovanna Cannova.
Giovanna era una donna di mafia, la mafia l’aveva accettata, la temeva e la rispettava. Era stata cresciuta secondo i dettami di una organizzazione tipicamente maschilista, che relega la donna al ruolo di procreatrice ed educatrice delle nuove generazioni, a custode dei “valori” della Famiglia; è per suo tramite che tutto viene appreso, è per il suo tramite che la virilità dell’uomo d’onore viene rincorsa e venerata, è per il suo tramite che si comprende di dover rispettare il padre sopra ogni cosa, è per il suo tramite che si impara a sentirsi parte della Famiglia, ma si impara anche che quella stessa Famiglia è capace di amare e di uccidere.
Il binomio eros e thanatos nella mafia è fondamentale, accettare di far parte della Famiglia vuol dire accettarne le regole, accettare che ribellarsi equivale ad una condanna a morte.
Giovanna Cannova queste cose le sapeva bene e, come donna di mafia, si limitava a svolgere il suo ruolo, imponendo l’accettazione di quelle stesse dinamiche alla figlia.
Rita, però, quelle regole non le aveva mai davvero accettate e quando i suoi uomini, gli uomini che da sempre le avevano voluto bene, il papà Vito ed il fratello Nicola (mafiosi anche loro), vengono uccisi, l’amore viscerale, quell’amore che solo una donna è capace di provare, esplode prepotentemente nel cuore e nella mente di Rita, che decide di rompere definitivamente con quel sistema di sangue, di morte e di vendetta.
Rita si confida con la cognata, Piera Aiello, moglie di Nicola, costretta a sposare un mafioso, ma profondamente contraria alla logica mafiosa. Le due donne si confrontano, si consolano e si fanno forza a vicenda. Piera incoraggia Rita e la convince a diventare, come lei, testimone di giustizia.
Nonostante il disprezzo della madre, Rita decide di fidarsi, di provare a rincorrere il suo sogno di libertà, di credere nella giustizia.
Rita Atria collaboratrice di giustizia
È in un uomo minuto, integerrimo ed affettuoso come un padre che trova la sua àncora di salvezza (almeno così lei crede), è di lui che si fida ciecamente, è a lui che si affida: il giudice Paolo Borsellino.
Rita racconta a lui tutto ciò che sa, gli permette di raccogliere elementi preziosi per le sue indagini, coltiva, attraverso l’instancabile lavoro di quel valoroso magistrato, il desiderio di una vita migliore e della vittoria della giustizia.
Così, da collaboratrice di giustizia, con il cuore pesante per la rottura del rapporto con la mamma – Giovanna la aveva osteggiata con tutte le sue forze, la aveva punita, umiliata, implorata, certa che “loro” avrebbero comunque vinto -, ma con la leggerezza, l’innocenza e la caparbietà che solo la sua giovane età poteva donarle, entra nel programma di protezione dello Stato e va a vivere a Roma con la cognata Piera.
Qui assapora quella libertà tanto desiderata, percepisce che un’altra vita per lei è, allora, davvero possibile, comprende che quell’uomo di cui si era fidata non l’aveva ingannata.
Rita vive come una ragazza della sua età, scopre ciò che fino a quel momento le sembrava difficile anche solo da pensare, si innamora. Si, conosce Gabriele e si innamora; vive un sentimento pulito e travolgente, lo vive alla luce del sole e, così, chiede di poter avere una casa tutta per sé, per sé e per il suo Gabriele.
Anche questo sogno si realizza e Rita va a vivere da sola.
La vita le sembra, finalmente, più bella, più leggera, più “normale”, Rita conquista, faticosamente, un nuovo equilibrio.
Domenica 19 luglio 1992
L’equilibrio di Rita si spezza, il castello dorato che ora le sembra la sua vita si sgretola, i fantasmi del passato ritornano a farle paura, l’uomo che fino ad allora la aveva protetta, la aveva accolta come un padre, non c’è più, è caduto sotto i colpi della mano assassina di quella piovra che è la mafia. Avevano vinto “loro”, un’altra volta.
Rita non ce la fa, è svuotata, spaventata, disillusa, non ce la fa ad accettare un’altra morte, non ce la fa a sopportare che colui nel quale aveva creduto non esista più, non ce la fa a pensare che, ora, un’altra vita non sia più possibile.
Scrive Rita, si libera, denuncia ancora una volta : “Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta.”
Poi, dopo solo una settimana dalla morte del “suo” giudice, il 26 luglio, sale sul terrazzo di quella casa, di quel luogo di speranza, di serenità desiderata e si lancia, pone fine alla sua sofferenza.
Lo Stato ha fallito ancora una volta. Lo Stato non ha saputo proteggere i suoi uomini, non ha saputo proteggere una ragazza di 17 anni che, dei suoi uomini, si era fidata.
A cura di : Avv. Nicoletta Princigalli Collaboratrice dell’Asdc Custodi del Femminino
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